XIII

LA NUOVA POETICA

Con la partenza definitiva da Recanati nell’aprile del 1830 e il nuovo soggiorno fiorentino si apre l’ultima grande fase dell’esperienza vitale e della poetica e della poesia del Leopardi: quella in cui la personalità leopardiana – conclusa l’esperienza dei «sedici mesi di notte orribile», di solitudine nel «natio borgo selvaggio» e consumata sino in fondo la poetica della «ricordanza» con tutta la complessa rete di motivi che vi confluivano e tanto la distanziavano da una pura e semplice disposizione «idillica» – si presenta come in un piú frontale incontro e scontro con il presente, irrobustita da un piú sicuro e consapevole possesso di sé, del senso della sua esperienza e della sua natura eroica, del proprio rapporto col mondo e con gli altri, delle proprie prospettive morali e ideologiche in attrito crescente e piú diretto con le ideologie della Restaurazione e dei gruppi liberali moderati e spiritualistici con cui il Leopardi viene a piú diretto contatto e contrasto.

Conclusa anche la via della meditazione piú analitica dello Zibaldone (di cui solo pochissimi pensieri consistenti, in mezzo a qualche nota filologica, superano la data del 5 giugno 1829 spingendosi fino al 4 dicembre 1832), la personalità leopardiana si esprime sostanzialmente (a parte la comunicazione dell’epistolario e la condensazione riflessiva e moralistica del gruppo dei Pensieri) solo nella poesia – a cui pertengono, a loro modo, anche le due ultime Operette morali – come mezzo integrale di espressione di sentimento, fantasia e pensiero, ancor piú stretti e collaboranti in una forma unitaria ed organica, ben adatta a questa suprema maturazione e sicurezza poetica e combattiva dell’ultimo Leopardi, a questa poetica dell’«eroica persuasione» e della virile «esperienza di sé» proiettata energicamente nel presente e non piú bisognosa di distinzioni fra «privato» e «pubblico», fra analisi riflessiva e sintesi poetica.

Questa suprema svolta poetica leopardiana trova il suo avvio (esplicitandosi come attuazione poetica solo dopo una lunga pausa di silenzio durata almeno un anno) in una disposizione vitale e morale caratterizzata, nel soggiorno fiorentino, da un nuovo fervore di rapporti con persone concrete, già conosciute o adesso per la prima volta incontrate, che di tanto supera quello piú pacato e temperato del «risorgimento» pisano e si associa alla consapevolezza di una mutazione del proprio «morale» espandendosi nelle lettere del ’30-32 con un ritmo piú alacre e, a volte, quasi gioioso[1], e ad un piú forte senso di sé, della propria grandezza, del valore delle proprie idee, avvalorate dalla propria sofferta esperienza, ma assolutamente incompatibili di una diagnosi patologica (e insieme di una qualifica di «tendenza religiosa») che il Leopardi esplicitamente rifiuta con sdegno, quando, nella lettera ricordata del 24 maggio 1832 al De Sinner, egli si ribella alle conclusioni di una recensione di suoi scritti apparsa nella rivista tedesca «Hesperus», passando dall’italiano al francese nell’intenzione di render pubblica anche fuori d’Italia la sua protesta:

Voi dite benissimo ch’egli è assurdo l’attribuire ai miei scritti una tendenza religiosa. Quels que soient mes malheurs, qu’on a jugé à propos d’étaler et que peut-être on a un peu éxagérés dans ce Journal, j’ai eu assez de courage pour ne pas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche resignation. Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j’ai exprimés dans Bruto minore. Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies[2].

Cosí ad una nuova sete di affetti e di incontri reali si collega una ferma e indignata difesa della propria dignità e coerenza ideale e morale, priva di remore e prudenze (a volte affiorate in fasi precedenti dell’epistolario leopardiano) sia che il poeta rifiuti duramente e spietatamente l’attribuzione a lui dei Dialoghetti reazionari del padre da lui qualificati «sozzi, fanatici dialogacci» e «infame, infamissimo, scelleratissimo libro»[3], sia che inviti il Vieusseux a smentire le dicerie su di una sua accettazione della carriera ecclesiastica: «Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli, cose che io terrei per ingiurie se fossero dette sul serio. Ma sul serio non possono esser dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri e i miei principii con le mie azioni»[4].

E se nel proseguirsi e svolgersi dell’esperienza biografica certi toni gioiosi ed alacri dell’inizio del soggiorno fiorentino si cambieranno in toni disperati, in questi stessi vibra un accento di intensità energica, di passione, ben coerente alla nuova intonazione che già in sede di Erlebnis, di vita vissuta, dimostra l’accresciuta tensione della personalità leopardiana (si pensi a certi biglietti al Ranieri brevissimi e laceranti: «Vorrei ch’ogni parola ch’io scrivo fosse di fuoco, per supplire alla dolorosa brevità comandatami dai poveri infelici miei occhi...», «Amami, anima mia, e non iscordarti, non iscordarti di me...»[5]) cosí rafforzata negli affetti e capace ora di quell’unica formidabile passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, che di tanto supera i vagheggiamenti e i desideri d’amore del Leopardi precedente, e che è incentivo e tema essenziale della nuova poesia nel suo primo ciclo e il cui succo di «esperienza di sé» (e dunque in diretto rapporto con questa nuova poetica dell’«esperienza di sé» e dell’«eroica persuasione») è ben rilevato da uno dei Pensieri piú centrali ed importanti (il pensiero LXXXII):

Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatto una grande esperienza di se, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita... Agli altri il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare... Certo all’uscire di un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi; conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo; già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di se e degli altri[6].

Proprio dal pieno di questa vera e presente passione e da tutta la nuova disposizione dell’uomo a vivere intensamente e vigorosamente nel presente (senza ricorsi alla memoria e al passato), a esercitare tutte le proprie forze di eroica tensione sentimentale, intellettuale e morale in una virile concentrazione della propria esperienza e del suo valore persuaso, sorge e si precisa una nuova poetica, una nuova direzione ispirata e consapevole della poesia che, astrattamente paragonata alla luce della presunta poetica e natura totalmente «idillica», sorprese e sconcertò tanti critici leopardiani e che invece nello stesso confronto concreto con i grandi canti pisano-recanatesi ricava la sigla della sua profonda novità (non della sua decadenza) e insieme la sua intima coerenza con una pienezza piú circolare ed intera di tutta la poesia leopardiana.

Questa nuova poetica che porterà fino alla Ginestra – rivelando in diverse tematiche la sua centrale direzione di energia perentoria e le sue caratteristiche di linguaggio e di ritmo, di musica «senza canto» o che il canto melodico riassorbe in forme sinfoniche potenti e articolate con una nuova misura tensiva e incalzante – si manifesta e realizza nella grande poesia che apre il ciclo dei canti legati alla vicenda esaltante e disperata della passione vissuta e consumata poi in un nuovo scacco pratico, ma non senza una tenace rivalsa interiore, coinvolgendo tutta la forza della matura personalità leopardiana, sdegnosa ormai di ogni rifugio nel passato o nell’astensione e nel disimpegno morale e poetico.

Improvviso e lacerante, lo stesso avvio del Pensiero dominante squarcia il lungo silenzio poetico succeduto al Canto notturno, con la potenza concentrata di una forza accumulata e maturata in quel lungo intervallo e ben si presenta come il bando significativo della nuova poetica, come l’intonazione perfetta della nuova voce perentoria e persuasa del Leopardi, che vive e assevera un’esperienza assoluta e presente, di estasi reale, non immaginaria, o recuperata solo nel ricordo, sostenuta da un’eccezionale intensità personale, tutta còlta e concentrata qui, nel presente, e al culmine di una vita di cui si identifica, nella nuova esperienza esaltante del pensiero d’amore, la maturazione e la conquista suprema:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lúgubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni...

Impostata sui due aggettivi tematici del primo verso (un’estasi amorosa di cui si accentua soprattutto la forza perentoria di completo possesso dell’animo) quella prima strofa pare davvero il simbolo concreto e il termine di intonazione fondamentale del nuovo atteggiamento poetico, in cui la personalità si presenta convinta e sicura, profondamente immedesimata nel ritmo incalzante, deciso, ascendente fino all’ultimo verso che non si adagia e risolve in armonico canto ed anzi si solleva ancora piú forte e battuto:

pensier che innanzi a me sí spesso torni...

Ogni parola è diretta e scelta da una sua funzione di energia, espressione di una vita urgente di sentimenti presenti, di un presente sentimentale di fronte al quale il passato si scolorisce, perde il suo fascino ormai consumato nella grande poesia della «ricordanza», come il paesaggio si fa coerentemente piú elemento di tensione che di distensione e di disacerbamento: paesaggio nudo e potente, piú scavato che dipinto, e saldamente unito al piú generale paesaggio severo e intenso dell’animo, che, nella presenza del pensiero d’amore e nella espressione poetica di questo sentimento, ha trovato la possibilità concreta di tradurre il suo nuovo modo di affrontare la vita e la poesia.

Cambiato è l’atteggiamento del poeta rispetto alla vita, cambiata la considerazione di se stesso: il presente non è eluso e respinto nel ricordo e nell’armonia del paesaggio, e le stesse illusioni sembrano ora farsi vive e reali nella passione amorosa, e seppure il poeta sa che questa è filosoficamente «sogno e palese error», qui soprattutto ne esprime l’aspetto di certezza, di esperienza positiva che rafforza la consapevolezza del poeta di appartenere ad un mondo superiore, eletto, eroico, vivo nelle grandi passioni e in una virile accettazione di princípi disperati, ma veri, contrapposto al mondo inferiore del comunque vivere, della mediocre umanità, frivola e bisognosa di credenze consolatrici ed ottimistiche che alla filosofia leopardiana appaiono prive di ogni serio fondamento di esperienza razionale ed esistenziale.

E questo nuovo atteggiamento, in cui il Leopardi concreta, a nuovo livello di maturità, le componenti eroiche del suo animo, si attua, ripeto, in una nuova poetica, la cui coerenza, fino ai piú minuti particolari stilistici, avrebbe dovuto pur dar molto da pensare a quei critici che videro questo periodo come decadenza o frammentario balenar di poesia malgrado e dentro una sconsolante prosasticità, invitandoli almeno a considerare il fatto che il Leopardi aveva ben consapevolmente indirizzato la sua forza spirituale e fantastica in una direzione espressiva tutt’altro che casuale, e d’altra parte tutt’altro che meccanicamente scontata dalla semplice applicazione di una esperienza precedente o di formule letterarie tradizionali.

Sicché, già a considerare solo Il pensiero dominante, si può facilmente notare come sia cambiata la costruzione poetica leopardiana: non piú la costruzione armonica e conclusa del Sabato e della Quiete, non piú la costruzione pur cosí rivoluzionaria e alacre sulla scia luminosa e struggente della memoria nelle Ricordanze, ma una costruzione tesa in strofe compatte, energiche, ascendenti, in cui il motivo dominante preme dall’interno di un centro irradiante e si traduce nello scatto intenso dei versi, nella impostazione frontale delle strofe, nella risoluta forza delle parole che rilevano e staccano continuamente un presente piú sicuro e pieno, un senso di certezza del proprio valore e della propria persuasione, vivi nell’inseparabile unità semantica, figurativa e fonica della parola. E sin nell’impiego delle interrogazioni cosí frequenti nel Leopardi – e nella sua superiore traduzione poetica idillico-elegiaca di tutto un modo stilistico-sentimentale che sale in lui dalla elegia preromantica e ossianesca – queste hanno chiaramente assunto una diversa funzione, non piú di affettuoso avvicinamento di figure e simboli cari e lontani, di tenera e densa elegia, ma di invocazione ardente o di impetuosi moti di sdegno, con cui la personalità intera (e l’impegno di identificazione di tutta la personalità nella poesia è fondamentale di quest’ultimo Leopardi) esprime la sua presenza e il suo intervento nella vita e nel presente.

Come avviene nel finale del Pensiero dominante, in cui la serie intensa e progressiva delle espressioni amorose trova soluzione nell’invocazione diretta alla donna (anch’essa ben lontana dalle figure «liete e pensose» di Silvia e Nerina), in un piú forte incalzare delle interrogazioni ansiose assorte ed urgenti, confermanti una brama ed un possesso interiore e attuale, in un sollevarsi della strofa ben diverso dai finali conclusi e melodicamente armonici dei canti pisano-recanatesi.

Da che ti vidi pria,

di qual mia seria cura ultimo obbietto

non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

ch’io di te non pensassi? ai sogni miei

la tua sovrana imago

quante volte mancò? Bella qual sogno,

angelica sembianza,

nella terrena stanza,

nell’alte vie dell’universo intero,

che chiedo io mai, che spero

altro che gli occhi tuoi veder piú vago?

Altro piú dolce aver che il tuo pensiero?

Forme di ritmo, di linguaggio, di costruzione tematica che sostanzialmente caratterizzano per tutto il periodo ultimo questa nuova poetica della personalità che si afferma nel presente con i suoi posseduti motivi di nuova certezza e persuasione ideale e morale, con il suo bisogno di completo impiego della sua energia morale e fantastica intorno a temi e termini di ardente aspirazione e di interiore possesso: l’amore prima, l’amore e la morte poi, e piú la morte (quando l’esperienza amorosa vien rivelando a poco a poco il suo margine di non coincidenza fra il pensiero amoroso e la donna amata) sentita non come rifugio ed evasione, ma come suprema mèta di possesso eroico di se stesso e della propria disperata e virile concezione della vita e del mondo.

E proprio questa concezione, intrecciata e fusa con il motivo dell’altezza e fratellanza di amore e morte (privilegio di animi superiori e potenzialmente eroici qualunque sia la loro condizione sociale e culturale) e con l’impeto ardente e funereo che risulta da quella fratellanza e dallo scambio delle qualità dei due signori dell’umana famiglia, viene piú chiaramente ad esprimersi, nel finale di Amore e Morte, in grande poesia. Di cui, anche sul piano ideale, non si potrà non sentire l’estrema profondità della persuasione che la sostiene, la partecipazione totale di tutta una vita coerente ed eroica, sofferta e scontata sino in fondo personalmente, e la forza poetica, l’incandescente violenza e la perfezione nuovissima dello slancio lirico in cui la polemica metafisica, la protesta contro la natura, sentita come un potere neroniano, che gode di porre gli uomini nella sofferenza e nel disquilibrio drammatico fra il loro animo insaziato e la realtà meschina e insufficiente, si sublimano (non per distensione, ma per equilibrio in tensione) nell’altissima evocazione di una figura virginea, alta come la figura della speranza in A Silvia, ma con quale diversa tecnica e con quale diversa complessità di movimenti ideali e poetici:

Ai fervidi, ai felici,

agli animosi ingegni

l’uno o l’altro di voi conceda il fato,

dolci signori, amici

all’umana famiglia,

al cui poter nessun poter somiglia

nell’immenso universo, e non l’avanza,

se non quella del fato, altra possanza.

E tu, cui già dal cominciar degli anni,

sempre onorata invoco,

bella Morte, pietosa

tu sola al mondo dei terreni affanni,

se celebrata mai

fosti da me, s’al tuo divino stato

l’onte del volgo ingrato

ricompensar tentai,

non tardar piú, t’inchina

a disusati preghi,

chiudi alla luce omai

questi occhi tristi, o dell’età reina.

Me certo troverai, qual si sia l’ora

che tu le penne al mio pregar dispieghi,

erta la fronte, armato,

e renitente al fato,

la man che flagellando si colora

nel mio sangue innocente

non ricolmar di lode,

non benedir, com’usa

per antica viltà l’umana gente;

ogni vana speranza onde consola

se coi fanciulli il mondo,

ogni conforto stolto

gittar da me; null’altro in alcun tempo

sperar, se non te sola;

solo aspettar sereno

quel dí ch’io pieghi addormentato il volto

nel tuo virgineo seno.

Introdotta da quel fervido ed esaltante movimento in cui il poeta identifica romanticamente un’umanità superiore in quegli uomini che sono aperti alla passione profonda dell’amore e al senso alto, eroico della morte come liberazione dalla frivolezza dei compromessi con se stessi e dall’istintivo attaccamento all’esistere (e dietro c’è la lezione alfieriana piú pura e profonda), l’invocazione alla morte, appoggiata sul «tu» altissimo di superiore, assoluto colloquio, si svolge in un periodo poetico di straordinaria complessità ed originalità, in cui la comune sintassi appare travolta da un ritmo perentorio, urgente, che trascina con sé dolci e intense allusioni amorose (che nella prima parte del canto si erano allargate in quadri che portano un nuovo colore piú realistico e ottocentesco-romantico) e violente, tormentose immagini inquisitoriali e che pure le svolge in un’onda impetuosa ma chiarissima, tutt’altro che enfatica, su cui si innalzano la personalità del poeta eroico e ribelle ad ogni «conforto» religioso e l’immagine della morte, di limpida e severa bellezza.

L’inno alla morte di questo canto coincide con quello finale del Dialogo di Tristano e di un amico, suprema prova della prosa poetica leopardiana che, nel rinnovamento di forze di questo periodo, rivela le sue condizioni piú alte e moderne (piú variamente riflesse nella raccolta dei Pensieri con il fondo piú acre dell’esperienza leopardiana del «mondo» e pur nella notevole volontà e capacità spesso di stringatezza opposta alle «parole non meno belle che ridondanti» dei prosatori italiani) fertilmente sdoppiandosi fra il fervore di ritmo dell’altra operetta morale, il Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere (tutte e due del ’31-32), e la vigorosa e malinconica dimensione del Tristano, in cui appunto la verità persuasa della visione pessimistico-eroica e l’affermazione della personalità intransigente e superiore alle sciocche e frivole speranze ottimistiche del proprio tempo nuovamente si identificano nel supremo appello alla morte, sollecitato dal logoramento dell’«estremo inganno» amoroso, e comportano una specie di significativissima autocritica e di sfollamento definitivo di vecchie illusioni già logorate (come quella della gloria) o di quel turbamento, nella morte, della ricordanza delle speranze piú giovanili e dell’«esser vissuto invano»[7] che tanta forza avevano avuto nella poesia dei canti pisano-recanatesi e che ora vengono per sempre abolite dall’animo leopardiano, tutto concentrato nel presente della sua esperienza, esaltante prima, disperata poi, ma ugualmente valida e persuasa, eroica, energica nell’affermare e negare.

Poi – scaricati nel Consalvo, cosí patetico e slabbrato, cosí atteggiato in forme poco congeniali di autobiografica novella romantica, gli elementi piú immediati e scomposti della passione non corrisposta e cercata di compensare con un sogno ardente, ma piú torbido e febbrile – il Leopardi chiuse violentemente e drammaticamente la vicenda del suo amore per Fanny risalendo ad una nuova ed estrema presa di coscienza della propria situazione (e, dietro questa, della situazione umana) nel brevissimo capolavoro di A se stesso, in cui la disperata e virile costatazione della fine dell’«estremo inganno» e l’invito al disprezzo di sé, della natura, del «brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera», dell’«infinita vanità del tutto», si impostano pur sempre sulla decisa affermazione persuasa del valore della propria piú intima personalità e del valore delle proprie idee estremisticamente ribadite in consonanza con quell’abbozzo di un inno Ad Arimane, che riconosce un Dio del male («arcana malvagità») carico della responsabilità del mondo e delle sue crudeltà, affermato per poterlo bestemmiare («ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà»), non per benedirlo o accettarlo passivamente: «Mai io non mi rassegnerò...»[8].

Sicché il profondo ricavo della vicenda passionale fallita non è una stanca delusione e un abbandono inerte, ma un rinnovato appoggio alle proprie posizioni eroiche-ribelli. E l’invito al cuore a «non palpitar» piú e a disprezzare se stesso, in realtà si configura come violenta reazione interna che colpisce quella parte di sé che ancora ha ceduto agli inganni e che viene cosí giudicata dall’altezza di un nuovo presente di verità (l’or che apre energicamente il «canto») e di una ancor piú maturata certezza del centro virile della personalità persuasa ed eroica. Coerentemente a ciò, il brevissimo componimento non si dispone affatto (non capir questo significa perdere il senso e il valore di questo capolavoro) in forme di lapidario e freddo distacco, di ripetitorio e gelido allineamento di affermazioni epigrafiche, ma sgorga invece in movimenti di estrema potenza, in slanci intensi, contenuti e bloccati da una forza poetica che tanto piú cosí ne fa vibrare la complessa energia, sicché ne risulta un ritmo organico, martellante e incalzante (come in certi «tempi» degli ultimi quartetti beethoveniani) fino al cupo suono di organo del finale nudo e severo, in una musica senza melodie e senza colori, tutta concentrata nelle parole tematiche e cosí capace di una novità di invenzione e di realizzazione veramente eccezionali.

Or poserai per sempre,

stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,

ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,

in noi di cari inganni,

non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

palpitasti. Non val cosa nessuna

i moti tuoi, né di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T’acqueta omai. Dispera

l’ultima volta. Al gener nostro il fato

non donò che il morire. Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera

e l’infinita vanità del tutto[9].

A questa prova di concentrazione estrema non risponde interamente il canto di Aspasia che riprende e rimedita il tema dell’«inganno» amoroso complicandosi e spesso ingorgandosi fra la rievocazione opulenta e sensuale della bellezza ingannevole della «dotta allettatrice» (in uno sfondo raffinato e realistico di interno ottocentesco e di primavera anch’essa opulenta di colori, con una capacità di pienezza di rappresentazione che va pur calcolata nelle risorse poetiche dell’ultimo Leopardi), la dura squalifica misogina delle «anguste fronti» femminili, la separazione dell’immagine interiore della donna dall’errore che l’aveva confusa con quella attraente, ma meschina e frivola della donna reale. Ma al fondo e nelle forme centrali di questa operazione di distinzione e di liberazione quasi psicanalitica (rievocare in tutta la sua attrazione l’origine di un trauma profondo e liberarsene definitivamente) pur vive un’energia ben pertinente alla piú vera direzione della nuova poetica leopardiana e alla sua strenua volontà di appoggio poetico intero alla propria attuale verità persuasa e al proprio valore tenacemente salvato da quella distinzione fra il proprio amore nobile ed alto e la sua errata collocazione obbiettiva.

Comunque con quella poesia, culminata nel sorriso finale come vendetta sulle cose e sulla brutta realtà e prova di superiorità forse sin troppo acre e compiaciuta, il poeta si riapriva la strada ad un ulteriore sviluppo della sua poesia dell’esperienza di sé e dell’eroica persuasione, riportandosi – con tutta la forza sperimentata nel ciclo amoroso – nel folto della sua meditazione esistenziale e della sua battaglia – nella poesia e con la poesia – ideologica e culturale, morale e pratica.

Cosí nelle due malinconiche ed elegantissime canzoni sepolcrali e nella loro tonalità lievemente piú opaca, e coerente ad uno stupore dolente nello scavo tutto sensistico in immagini splendenti e corrose dalla friabilità della loro materia mortale, il profondo sentimento dell’«umano» spinge il Leopardi ad una nuova densa e dolorosa indagine nei problemi piú ardui della natura umana e della sorte: il problema dell’incanto della bellezza e della sua caducità, delle stesse eccezionali forze di sentimento e di immaginazione dell’uomo, tutto materiale e fragile e pur capace di cosí alto sentire, il problema della crudele e inesorabile separazione dei vivi dai morti, già vivi ed amati (la morte degli «altri» è quella che colpisce naturalmente Leopardi) e il problema della suprema spietatezza della natura che rende necessario tale supremo dolore, quasi inconcepibile in una realtà un po’ meno malvagia, e che piú generalmente destina alla vita e alla morte (l’una e l’altra cosí accomunate sotto il segno del male) «tutti» gli uomini ormai sempre piú chiaramente sentiti come vittime innocenti, come «senza colpa», «ignari», non «volontari» rispetto al dono crudele della vita e della morte. La forza scatta dalla folta malinconia e dall’impasto piú opaco-elegante del linguaggio in quelle domande e affermazioni supreme:

Natura umana, or come,

se frale in tutto e vile,

se polve ed ombra sei, tant’alto senti?

Se in parte anco gentile,

come i piú degni tuoi moti e pensieri

son cosí di leggeri

da sí basse cagioni e desti e spenti?

[...]

Già se sventura è questo

morir che tu destini

a tutti noi che senza colpa, ignari,

né volontari al vivere abbandoni,

certo ha chi more invidiabil sorte

a colui che la morte

sente de’ cari suoi. Che se nel vero,

com’io per fermo estimo,

il vivere è sventura,

grazia il morir, chi però mai potrebbe,

quel che pur si dovrebbe,

desiar de’ suoi cari il giorno estremo,

per dover egli scemo

rimaner di se stesso,

veder d’in su la soglia levar via

la diletta persona

con chi passato avrà molt’anni insieme,

e dire a quella addio senz’altra speme

di riscontrarla ancora

per la mondana via;

poi solitario abbandonato in terra,

guardando attorno, all’ore ai lochi usati

rimemorar la scorsa compagnia?

Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre

di strappar dalle braccia

all’amico l’amico,

al fratello il fratello,

la prole al genitore,

all’amante l’amore: e l’uno estinto,

l’altro in vita serbar? Come potesti

far necessario in noi

tanto dolor, che sopravviva amando

al mortale il mortal? Ma da natura

altro negli atti suoi

che nostro male o nostro ben si cura[10].

Quella forza appassionata, specie nelle domande dolenti e tese, dimostra anzitutto come il materialista Leopardi, nulla concedendo ad evasioni mistiche e a rimpianti di fedi perdute, fosse ben lontano da forme di materialismo freddo o infatuato, e vivesse con estrema profondità drammatica i problemi che la sua stessa persuasione materialistica pur sempre poneva al suo animo grande, ricchissimo e mai irrigidito, mentre da quella persuasione di fondo, nello scontro con quelle domande insopprimibili, scaturiva la forza perentoria e ironico-dolorosa della riaffermata certezza nella indifferenza della natura.

E quella forza e quelle domande ben dimostrano infatti come lo stesso sorriso di superiorità del finale di Aspasia non segnasse affatto un risolutivo «titanico» orgoglio misantropico e una mancanza di quella passione per l’umano che si viene anzi svolgendo nel «tutti noi», mentre, d’altra parte, questo stesso amore per gli uomini non discendeva a dolciastra pietà di tipo pascoliano («è la pietà che l’uomo all’uom piú deve»!), ma si prospettava come un amore severo e virile, capace di reagire energicamente alle stesse stolte e malvage debolezze degli uomini, ai loro errori ideologici e morali.

Ché – lo si ricordi bene – anche nel supremo messaggio di solidarietà umana della Ginestra Leopardi non mancherà mai di chiamare gli sciocchi sciocchi, i malvagi malvagi, anche perché – ad un livello distintivo essenziale – per lui «misera non è la gente sciocca» e il «tutti noi» presuppone l’accettazione della verità, la conversione degli errori che mortificano l’uomo e collaborano con gli inganni e la crudeltà della natura.

E cosí la passione umana delle due canzoni sepolcrali non contrasta con quella crescente tensione aggressiva, polemica, satirica in cui si commuta la forza che aveva sorretto la poesia dell’esperienza di sé e dell’eroica persuasione nel ciclo amoroso e che ora si elabora in una formidabile pressione combattiva negativa e affermativa, che culminerà nella grandiosa poesia della Ginestra intrecciandosi con il «vero amore» per tutti gli uomini e con l’appello alla loro solidarietà di lotta contro la natura in una suprema unione di tutti i motivi leopardiani piú maturi e profondi.


1 Cfr. particolarmente le lettere a Monaldo e Paolina del 12, 18 maggio e 28 giugno 1830 (Tutte le op. cit., I, pp. 1348-1349) («Mi trovo affollato di visite e tutti mi fanno complimenti sulla mia buona cera» ... «sempre in giro a restituir visite. Nuove conoscenze, nuove amicizie») o quella del 26 giugno 1832 (ivi, I, pp. 1385-1386) in cui si dichiara «cangiato molto nel morale».

2 Tutte le op. cit., I, p. 1382.

3 Cfr. lettera al Melchiorri, 15 maggio 1832 (Tutte le op. cit., I, p. 1381).

4 Lettera del 27 ottobre 1831 (Tutte le op. cit., I, p. 1387).

5 Cfr. le lettere al Ranieri del 24 novembre 1832 e del 12 gennaio 1833 (Tutte le op. cit., I, pp. 1393, 1397).

6 I Pensieri meriterebbero comunque un nuovo e apposito studio sia per i rapporti di molti di essi con lo Zibaldone, da cui derivano, sia nel rilievo di punte piú alte, come quelle del citato pensiero LXXXII (Tutte le op. cit., I, p. 238) o del pensiero CIV (Tutte le op. cit., I, p. 244), terribile e significativissima condanna dell’educazione, specie italiana (come «formale tradimento ordinato dalla debolezza contro la forza, dalla vecchiezza contro la gioventú»), sia per la precisazione della loro direzione stilistica da ben calcolare entro la gamma della fertilissima poetica dell’ultimo periodo leopardiano, sia nel ricambio fra le nuove spinte solidaristiche e la certezza realistica della malvagità e miseria del «mondo» e della società. Ricambio e rapporto ben importanti non a limitare il persuaso e severo appello solidaristico della Ginestra, ma a sottolineare appunto la base di severità, di severo amore, ben consapevole di istinti malvagi, egoistici, sciocchi, insiti negli uomini e fomentati da un tipo di società che Leopardi combatte nei suoi aspetti di educazione (promozione di egoismo) o di «massificazione» ottimistica (la felicità delle masse legata a un puro progresso tecnologico che ignora il dolore e i problemi degli individui che le compongono e che si contrappone al solidarismo di uomini resi tutti coscienti della verità e della reale condizione umana). Si veda ora sui Pensieri il saggio di A. Diamantini in «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1970.

7 Non a caso nell’intero possesso di se stesso di fronte alla morte il Tristano capovolge precise asserzioni del Passero e delle Ricordanze. Si ricordi il passo del dialogo: «Né in questo desiderio (della morte) la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensier d’esser vissuto invano, mi turbano piú, come solevano» e lo si confronti soprattutto con il passo delle Ricordanze: «E quando pur questa invocata morte / sarammi allato... di voi (le speranze) per certo / risovverrammi; e quell’imago ancora / sospirar mi farà, farammi acerbo / l’esser vissuto indarno, e la dolcezza / del dí fatal tempererà d’affanno».

8 Cfr. l’abbozzo dell’inno Ad Arimane, in Tutte le op. cit., I, p. 350.

9 La svalutazione di A se stesso è certo uno dei punti decisivi di discrimine nella diversa prospettiva critica circa gli «ultimi canti», ma anche circa tutta la possibilità e la stessa natura di fondo della poesia leopardiana. Cosí si può ben capire come il Croce già nel suo saggio del ’22 indicasse A se stesso come esempio di forma epigrafica «che non sembra possa dirsi lirica» (in Poesia e non poesia, Bari, 4ª ed. 1942, p. 108) e poi ci ritornasse sopra in confronto con l’ode barocca tedesca del duca di Braunschweig in cui – mentre estremamente rivelativo del fondo ottimistico-vitalistico-catartico del classicismo crociano è il riferimento, a contrasto, di una citazione goethiana sulla vera poesia che «libera, mercè di un’intima serenità e di un congiunto benessere, dai pesi terreni onde siamo oppressi» – colpisce l’assoluta incomprensione crociana del profondo valore ritmico di questo canto e della prospettiva della poetica che lo dirige: «Il Leopardi non ha avuto, nel comporlo, neppure la gioia del canto: rinunziando a tutto, ha rinunziato questa volta alla poesia propriamente detta, alle parole, alle immagini, ai ritmi poetici» (in Poesia antica e moderna, 2ª ediz. Bari 1943, p. 380). Può invece stupire che non si sia sottratto a tale svalutazione il Luporini (nel suo Leopardi progressivo cit., p. 243) inserendo tale svalutazione in un giudizio generale della poesia leopardiana troppo vitalisticamente intesa: «Quando i versi del Leopardi cadono fuori di quell’adesione alla vita (e sia pure la vita della ginestra) essi cadono fuori della poesia, come in quella specie di biglietto lasciato sul tavolo che è il famoso A se stesso». Valorizzò viceversa (sulla base di un suo studio, molto precedente) con grande finezza lo stimolo della mia interpretazione degli ultimi canti e in particolare di A se stesso Angelo Monteverdi che confermò di quel canto l’altezza poetica con minuto e acuto esame stilistico («la parola conclusiva tra i discordi giudizi a me par quella pronunciata dal Binni nelle belle pagine da lui dedicate al canto A se stesso, nel quale egli ravvisa una prova capitale di quella che è per lui la nuova poetica leopardiana»; Scomposizione del canto «A se stesso», in Frammenti critici leopardiani, Napoli, 1967, p. 131).

10 Sopra il ritratto ecc., vv. 50-56, e Sopra un basso rilievo ecc., vv. 75-109.